Nessun sogno è mai stato così insensato come la sua spiegazione. (Elias Canetti)

martedì 22 aprile 2014

L'ALTRA BELLEZZA

Displasia ectodermica. Un modo asettico per definire una piccola galassia di alterità cellulari, qualcosa che non è proprio malattia ma una condizione di esistenza. Anomalie strutturali genetiche, anomalie che sono persone, con i loro sogni, ansie e paure ed il loro percorso umano.

Questo non vuole essere l’ennesimo peana di mitologia yankee su “chi alla fine ce l’ha fatta”, un Rocky Balboa in versione handicap, perché nello specifico la meta è quanto di più effimero offra la nostra società alla bulimia dell’Homo Videns. Ed è proprio la natura di questo sogno ad affascinarmi, e di conseguenza non posso che essere soddisfatto della sua realizzazione.

Melanie Gaydos è una modella, probabilmente ha sempre voluto esserlo, fin da piccolina. Non è stata scelta in una festa alla cocaina dal fashion guru di passaggio, in cerca di freaks (“Mio Dioooooo, sei diviiiina, tesoro!”.) Dalla provincia americana si è mossa da sola, ostinata e lucidissima nella sua follia. Consapevole del proprio aspetto, consapevole delle difficoltà e del fatto che quel mondo che così ama probabilmente MAI l’accetterà del tutto, considerandola tutto al più una interessante “anomalia”, in grado di far rifulgere ancora di più la gloria di plastica delle sue eroine. Eppure è lì, una piccola e splendida stella di oscurità, un segno quasi subliminale che qualcos’altro è possibile, se non qui, in universo prossimo, invisibile ma a noi confinante.

Pacifica terrorista del corpo, al di là delle sue intenzioni, Melanie si offre nuda alle bocche delle macchine fotografiche appagando la nostra fame di “monstrum”, vorace di creature da “mostrare” che ribadiscano la nostra vacillante normalità, e che nell’altro verso tracciano anche l’optimum inarrivabile, l’esempio delle Afrodite e Apolli, mostri di perfezione che segnano il confine, relegandoci nell’acquitrino degli “esseri normali”, condannati al naturale decadimento fisico tra appariscenza e orrore, da cui siamo in modo identico attratti e respinti.

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venerdì 3 agosto 2012

HATCHET II

Penso che un vero appassionato di film horror sia sotto sotto un tantino masochista, e personalmente questo masochismo l’ho pienamente espresso decidendo di sottopormi alla visione di HATCHET 2, non contento della pur esaustiva opera prima, HATCHET (1).

Il film comincia esattamente dalla fine del primo, quando il mostruoso Victor Crowley afferra l’eroina (che pensavamo ormai spacciata), ma quest’ultima gli infila un grazioso dito laccato di rosso nell’occhio e riesce a fuggire via.

Da questo momento, eccettuato un gradevole intermezzo dove Crowley gioca al tiro alla fune con le budella di un pescatore colpevole di aver aiutato la ragazza (che poi è la nipote di uno degli aguzzini di Crowley, chiaro no?), ci sono tre quarti d’ora di nulla, o poco più, dove la fanciulla alterna piagnucolamenti vari a ferrei propositi di vendetta.

I tentativi di comicità sono i momenti più agghiaccianti, a mio modo di vedere (negli slasher movie in generale e in questo film in particolare), e rabbrividisco ancora al ricordo di tutte le insopportabili battute del personaggio Vernon, il simpaticone coloured del gruppo che (purtroppo) sarà solo l’ultimo ad essere giustamente sminuzzato.

Dopo che il Reverendo Zombie (interpretato dall’eccellente Tony “Candyman” Todd, qui al minimo sindacale, ma non lo biasimo) ha messo su una banda di mercenari, ecco che si parte all’avventura nelle paludi della Lousiana, regno del tremendo Victor Crowley.

Da qui il copione è unico. La parola d’ordine sembra quella di ogni horror: “Il luogo è pericoloso, anzi mortale. Quindi non possiamo fare a meno di dividerci e cazzeggiare !”

Dal gruppone i personaggi si isolano (chi per farsi una scopata, chi per pisciare, chi senza scuse, solo per conclamata stupidità) e vengono ovviamente fatti a pezzi da Crowley.

I tentativi di dare spessore alla storia spiegando il passato di Crowley e il motivo della sua maledizione appesantiscono soltanto la narrazione, raddoppiando noiosamente le informazioni ripetute. Si salva un singolo FLASHBACK, forse il miglior momento horror del film, dove si vede il padre di Crowley maledetto dalla moglie in fin di vita per averla tradita con l’infermiera creola (sì, lo so, non sindachiamo…)

Insomma, che dire… Non sono un amante degli slasher anni 80, e quindi non sono il più adatto a giudicare una pellicola del genere, ma questo Hatchet II non credo possa piacere più di tanto neanche agli appassionati.

Ah, per inciso ho preferito questo al primo.

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giovedì 2 agosto 2012

VENEXIA (l’arte di Luigi Di Giammarino)

Angelo 
Se è vero che tutte le città sono un simbolo, alcune lo sono più di altre. Venezia è uno di quei luoghi dove un artista, per quanto bravo ed entusiasta, corre il rischio (e ne ha tutto il diritto!) di perdersi nel dedalo dell’infinita replica di ponti e campielli, già visti e digeriti sul bianco di altre tele o di pagine scritte, di vedersi annegare matite e pennelli nella marea montante di riferimenti, citazioni, echi e fantasmi che fanno di Venezia e delle altre Città (ma Venezia in particolare) un luogo dove è meglio non spingersi troppo oltre, se non si vuole impantanarsi nella laguna della pur legittima rappresentazione agiografica o dell’intimismo autoreferenziale.
Luigi Di Giammarino sceglie la terza via, o forse è più esatto dire viene scelto da essa. Luigi si lascia andare al Sogno.
La coerenza a-razionale con cui si presenta Venexia ci spinge subito a comprendere che siamo di fronte a un professionista del viaggio onirico, ben conscio dei rischi di un facile gioco di automatismi. Luigi viaggia nel sogno non subendone la dittatura, ma anzi creando passo dopo passo il terreno su cui posa i piedi.
Non è un caso che i personaggi che popolano la Venexia di Luigi siano musicisti, pittori, poeti… anime creatrici che, ben lungi da un indolente riposo nei Campi Elisi dell’Immaginario, si rimboccano le maniche e perseguono il compito occupato in vita: creare realtà o, per usare le parole di un altro grande Sognatore recentemente scomparso come James Hillmann, fare Anima.
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C'é Hundertwasser in basso a destra, che annaffia una sorta di giardino secessionista da cui fioriscono immagini; in alto campeggia con finta cupezza l’Isola dei Morti di Bocklin che nell’immaginario splendidamente distorto di Luigi diventa quasi un “memento vivi”.
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C'é un omino di Magritte, con valigia, che passeggia lungo il canale, alla sinistra.
L'angelo è un musicista di strada, un alter ego giovanile dello stesso Luigi, testimone del periodo in cui l’artista ha vissuto e lavorato nella Venezia “reale” (qualsiasi valenza vogliamo dare a questo abusato termine).
Venexia è la lucida traccia del sogno percorso da Luigi sul terreno mnemonico dell’altra Venezia, quella “vera”. Venexia è la città creata dall’arte di Luigi e dei suoi indaffarati alter ego, una città dipinta che a sua volta crea i propri creatori.
Non si pensi ad un mero gioco di parole perché dietro l’arte onirica di Luigi c’è una dichiarazione programmatica di intenti che farebbe l’invidia di un implacabile giacobino. Il patto tra Luigi è il suo inconscio è la base del modus operandi che l’artista (forse indipendentemente anche dalla propria volontà) si è imposto sin dagli inizi.
Nelle sue opere (che siano tele, disegni o “semplici” tavole a fumetti) l’estrema libertà della materia (di cui sono fatti i sogni?) è solamente apparente, basta scostare i veli o guardare con occhio appena un poco smaliziato per accorgersi che il Gioco è retto da regole ferree, ben note ad ogni Sognatore.
Nel sogno si entra in un altro continuum dove le leggi della veglia non hanno più valore, tra queste il principio logico dell’identità: il sognatore può incarnare più persone contemporaneamente, a volte anche in conflitto tra loro.
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I personaggi sognati e rappresentati da Luigi sono tutt’altro che in cerca di autore.
Osserviamoli: essi passeggiano in tutta tranquillità negli interstizi di realtà aliene e domestiche, la loro operosità nel creare qualcosa dal nulla ci fornisce l’indizio che dietro ogni maschera si nasconda un solo essere, un solo sognatore. Un fabbricatore di Anima. L’Artista? È questa la (troppo) facile risposta?
Per sua stessa ammissione, il percorso artistico di Luigi è stato fortemente segnato dalla scoperta del movimento Surrealista e dal cinema di Luis Bunuel, che l’ha spinto verso la ricerca della potenza dei sogni e la sperimentazione del metodo della scrittura automatica, uno degli strumenti più importanti della tecnica di scrittura surrealista. Luigi ha poi applicato questo metodo al disegno e alla scelta dei temi per le sue opere.
Sappiamo che l’obiettivo della scrittura automatica è quello di ridurre la censura della razionalità, ovverosia gettare un ponte (sia esso d’oro o di liane sfilacciate) oltre il baratro dell’Inconscio, lì dove ci dicono dimorino i mostri alla guardia di favolosi tesori.
Questo è ciò che Luigi fa, con l’onesta e muta pervicacia di un monaco amanuense. Ciò che fortunatamente tralascia è la freddezza medica comune a certi esecutori di teorie psicanalitiche (chissà perché più ci si addentra nella psiche più ci si sente in debito nei confronti del positivismo…)
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Quello di Luigi invece è lo stesso entusiasmo del bambino che sale per la prima volta sullo sgangherato carrello del Luna Park di paese e vede spalancarsi la bocca del Tunnel delle Meraviglie e degli Orrori.
Luigi è il primo a stupirsi dei richiami simbolici che vengono a far visita ai suoi paesaggi, paesaggi che in un certo modo servono unicamente a evocare altre presenze, genii loci benigni, suggestioni e riferimenti non fini a se stessi ma materiale pulsante del suo “artigianato onirico”.
Sono le stesse “citazioni” a farsi carne (e materia cromatica) e quindi farsi sogni.
Sono i sogni a dettare a Luigi, alla maniera della scrittura automatica, i paesaggi in cui passeggiare.
Tutto proviene da quest’unica matrice, l’Etere dinamico dell’Immaginario onirico, ed ecco che la cartesiana divisione tra paesaggio e figura diventa questione arbitraria: volti si affacciano tra gli alberi, colombe sbocciano dalla pietra e corpi di allungano in amene vallate medievali.
Tenendo conto di tutto questo, il sospetto che le figure che popolano il mondo infero e psichico di Luigi siano solo maschere dietro le quali si nasconda la faccia dell’autore… è confermato solo in una minima parte. Queste mute creature, talmente fragili da non poterle immaginare vivere in nessun altro posto al di fuori di un sogno, questi teneri e inquietanti psychai, sono sì una maschera dietro la quale si nasconde il volto dell’Artista, ma anche questo volto è una maschera, dietro la quale, se abbiamo il coraggio o l’impudenza di sbirciare, non troviamo altro che uno specchio che riflette la nostra immagine.
Forse il nucleo di tutto il lavoro da operaio dell’immagine di Luigi si può riassumere in una domanda (al momento senza risposta): chi crea l’Arte? È la Memoria? Il Sogno? L’Arte è negli occhi di chi la guarda? O forse è l’opera stessa ancora prima di essere creata, nella sua forma di tela bianca, a dettare le linee della sua futura realizzazione?
È rassicurante vedere come la pittura mutante di Luigi affondi le radici nella tradizione contadina e brugeliana, non ci stupiremmo più di tanto nel vedere gli affabili mostri metamorfi di Luigi portar a spasso oche o intenti in una quadriglia.
Perché tutti i riferimenti, da quelli “dotti” del surrealismo a quelli pop, in Luigi diventano “italiani” nel senso più alto della parola.
Una lezione, o forse solo un suggerimento, quanto mai attuale.
Venezia

domenica 29 luglio 2012

THE PRESENCE

Vi siete mai chiesti cosa si prova a convivere con un fantasma?
La risposta l’abbiamo in questo film.
Se non si tratta di uno spettro inglese old style, catene sferraglianti e ululati notturni; se non è un nipponico rancoroso intenzionato a terrorizzarvi a morte (letteralmente); se non è il poltergeist che vi sveglia la notte per gettare all'aria il servizio di porcellana di nonna... beh, può essere un'esperienza incredibilmente noiosa.
E tale infatti si rivela per la protagonista, biondina introversa (una ritrovata Mira Sorvino caruccetta... ma io la ricordavo strabonazza, ma com'è? mah!), che decide di andare a vivere tutta sola nella casa di famiglia, una bella baita isolata in un bosco in mezzo ad un'isola priva di corrente elettrica e linea telefonica (nient’altro?).
Per inciso il luogo è splendido, se dovessi avere una simile insperata eredità mi trasferirei senza se e senza ma, a costo di affrontare un esercito di fantasmi.
Comunque... Il fantasma in questione è un giovane uomo, belloccio, truccato tipo "vampiro-pescelesso-Twilight" con tanto di capello laccato, che per i primi 20 minuti del film si limita a guardare imbronciato Mira fare delle cose. Il voujerismo deve essere il peccato principe dell'Aldilà, a quanto sembra. Il suo concetto di “terrorizzare i viventi” è accendere il vecchio grammofono di notte.
A questo punto l'arrivo di un terzo personaggio ci salva da un'ora e mezza di infatuazione ultraterrena non consumata. Si tratta del legittimo fidanzato di Mira, una faccia di rara antipatia, che ci fa subito parteggiare per il povero e timido fantasma che purtroppo non deve avere alcun contatto con i suoi colleghi del Sol Levante, che avrebbero fatto a pezzi seduta stante l'odioso terzo incomodo e sputato i suoi resti nel gabbiotto della toilette in mezzo al bosco (non è una battuta, il gabbiotto c'è ed è luogo di spavento per i protagonisti che a turno ci vanno a fare i bisogni e si trovano bersagliati da uccelli morti... nel senso di volatili, nell’altro senso assolve il ruolo egregiamente già il fidanzato).
La storia si "sviluppa" con il rancore (catatonico e inespresso, altro che The Grudge) del nostro amico impalpabile, e dell'apparizione di altri fantasmi, ben più terribili, che emergono dal passato di Mira: una brutta storia di una violenza carnale perpetrata dal padre che le fa vedere il suo fidanzato (antipatico ma onesto, purtroppo) sempre più in cattiva luce.
E il nostro fantasma... sarà messo alla prova da "altre presenze”, fino ad un finalone di buoni sentimenti con tanto di angeli e diavoli (sì, intendo in maniera letterale.)
Che dovrei dire adesso? È uno di quei casi dove il sarcasmo è talmente facile che sembrerebbe di sparare sulla Croce Rossa. Il film fila via alternandosi tra noia e tedio (l'interesse è capire la sottile differenza tra i due sentimenti) con i soli picchi di tensione raggiunti quando i due personaggi vanno a fare la cacca nel gabbiotto (sempre di notte, ovviamente).
Il regista non ha assolutamente nessuna idea di come causare un minimo di suspence, o anche di semplice inquietudine, e il tutto fila via in una regia da film televisivo statunitense, dove ci si aspetta (augurandoselo tra l'altro) che da un momento all'altro esca fuori Chuck Norris nel ruolo della guardia forestale a prendere a pizze fantasmi e diavoli.
Che poi... lo spunto di partenza non sarebbe neanche male. Lasciatemi sognare per un momento.
Plot di Massimiliano. Una donna va in una casa isolata in un bosco, tormentata dai ricordi di una violenza carnale subita in tenera età (e già psicologicamente sarebbe un bel problema cercare di spiegare perché se ne ritorna da sola nel luogo che l'ha vista soffrire invece di fuggire più lontana possibile... ma evidentemente gli autori non si sono soffermati su tale piccolezza). Nella casa c'è un fantasma che in qualche maniera si innamora di lei. Poi viene il fidanzato e il fantasma si incazza.
Bene, la mia sfida, se fossi stato l'autore, sarebbe stata quella di NON mostrare mai il fantasma. O meglio mostrarlo attraverso la sua assenza, i segni che lascia. Tutto un alfabeto che la donna comincia a interpretare, mentre l'insofferenza del fidanzato cresce, mutandosi in malvagità, quasi per osmosi dalla casa, dove riaffiorano i mai sopiti orrori.
Ecco, io sarei partito da questo... ma non sono un regista hollywoodiano, purtroppo.
Se non si era capito, da non vedere assolutamente, a meno che non siate fan sfegatati della Sorvino.
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venerdì 27 luglio 2012

MALEFIQUE

Tra le prime pellicole dell’ondata di orrori oltralpe di inizio millennio, Malefique è una piccola perla, grezza, non rifinita, ma che vale comunque la pena vedere.

Storia claustrale, se non proprio claustrofobica, che si svolge quasi interamente tra le quattro mura di una cella (solo ad certo punto i protagonisti riescono ad uscire dal loro loculo… per entrare in un’altra cella, senza porte stavolta!), Malefique deve la sua parziale riuscita più che altro alla bravura dei quattro attori e alle particolarità grottesche dei personaggi che interpretano.

Un anziano bibliomane uxoricida, uno spensierato giovane cannibale tardo di mente che si fa tagliare via le dita come svago, un omone transgender con delle bellissime tette e un cinico imprenditore solo apparentemente spaesato sono i quattro compagni di cella in una prigione tetra e oscura.

Una notte da una crepa nel muro sbuca fuori un libro (e anche una gran quantità di blatte, ma quelle non sono malefiche, solo schifose). Il libro è il diario del precedente occupante della cella, un serial killer occultista, che ha diligentemente riportato sulle pagine le formule negromantiche per evadere dalla prigione.

È evidente che nessuno dei protagonisti ha mai letto Lovecraft, altrimenti avrebbero saputo che, in questi casi, i libri di potere portano sempre una estrema sfiga (Necronomicon in testa) e il prezzo da pagare per i maghi fai da te è sempre altissimo.

La citazione di Lovecraft non è peregrina perché sono evidentissimi i riferimenti-omaggio, uno per tutti il nome del terribile dio Yog-Sothoth, il mostruoso Guardiano della Soglia, riportato in calce tra le pagine del libro.

Il film mantiene inalterato il suo interesse per tutto il tempo che i quattro cominciano a “fare conoscenza” con il libro, che in effetti è di fatto il quinto personaggio, silenzioso ma piuttosto attivo. Non mancano scene disturbanti come il collage di vagine attaccato alla parete, “opera d’arte” del giovane ritardato, che in una visione alla Ken Russell prende vita (e risulta tutt’altro che eccitante…), oppure la parete di pietra che decide di farsi una sgranocchiata di dita umane e per finire una “morte aerea” tutt’altro che piacevole, il tutto supportato da una sulfurea fotografia (sembra di essere in una cella medievale, altro che anni 2000) e, come ho già detto, una recitazione più che dignitosa.

Il tutto si smonta un po’ sul finale, che si banalizza e diventa leggermente moralistico, ricorda infatti molto le chiusure di telefilm tipo “Twilight Zone”. Deboluccio, in effetti. Non pregiudica a mio parere un prodotto dignitoso, se pur non eccelso.

Da vedere, per gli appassionati s’intende.

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giovedì 26 luglio 2012

RUE SAINT-JULIEN

Chiedere asilo sotto altre stelle, imparare a vivere di prugne in salamoia e Beaujolais. Esibire con sfrontata guasconeria la propria bruttezza come opera d’Arte, come un vecchio e sconcio Sileno. Al mattino raccogliere la condensa dei sogni sui vetri degli abbaini. Percorrere gli anni che restano all’incontrario, verso una gloriosa e infantile senescenza, dimenticando un pezzo al giorno di quello sconosciuto che gli altri per una vita si sono dati tanta pena di importi.

A Cat in Paris